giovedì 22 luglio 2010

MARY SHELLEY - Frankenstein


DOVE: tra Svizzera, Germania e Inghilterra, fino al polo nord
QUANDO: Diciottesimo secolo

Ecco un classico che non ci si stanca mai di rileggere, un libro che testimonia quanto opere apparentemente vecchie di due secoli sappiano parlarci con prepotente attualità.
E poi, basta leggere la biografia dell'autrice, per rimanere affascinati dalla sua figura intraprendente ed avventurosa: fuggita di casa diciassettenne, per amore del poeta (e già sposato) Percy Bysse Shelley, viaggiò tra Francia, Svizzera, Germania ed Olanda, trasportata dal tumulto della sua passione ed accompagnata dalla sorellastra Claire. La sua vita è costellata di eventi burrascosi, dalla morte della prima figlia a pochi giorni dalla nascita, a quella della sorellastra Fanny - suicida - e della prima moglie di Shelley, Harriet, a seguito della quale Mary potè sposarlo. E poi, la relazione clandestina tra il poeta e la soffocante sorellastra Claire, sempre al loro seguito, dalla quale nacque una bambina (Allegra) affidata poi a Mary e Percy dopo la morte della madre naturale; la morte del secondo figlio della coppia, William, stroncato da una malattia a soli tre anni durante la loro permanenza a Roma, e della piccola Allegra portata via dal tifo solo pochi anni dopo, fino alla tragica e precoce scomparsa del poeta, durante una gita in barca a vela. Solo a riassumerle, sembra una trama intricata frutto della penna di uno scrittore.
Io poi sono una che dà sempre una sbirciata, quando l'edizione del libro include una biografia dell'autore. Di solito lo faccio al termine della lettura, e di solito mi ritrovo a dire "ah.. ecco perchè ha scritto questo e quest'altro.."
Da una vita piena e burrascosa come quella di Mary, non poteva che sbocciare un romanzo vivo e intenso di emozioni, seppure a qualcuno possa forse risultare ingiustamente ostico familiarizzare con il linguaggio ovviamente "d'epoca".
La storia del libro, poi, è ben nota - e anch'essa affascinante: in una sera di pioggia nella residenza che allora presero nei pressi del lago di Ginevra, Percy Bysse Shelley propose a Mary e agli altri ospiti di scrivere, per scommessa, un romanzo dell'orrore. Nacque così il più classico dei classici horror - assieme, probabilmente, a Dracula di Bram Stoker- la storia dell'infelice creatura nata dall'esperimento del giovane scienziato Frankenstein, il quale, mettendo assieme brandelli di cadaveri seguiva il sogno visionario di iniettare in essi la scintilla della vita.
Solo che l'essere che ne risulta è dotato di intelligenza, curiosità e sensibilità - doti sufficienti a renderlo anche consapevole del ribrezzo che suscita negli esseri umani; è una creatura unica e per questo sola, in un mondo che reagisce alla sua vista con urla di terrore e aperto ribrezzo.Spinto dal loro rifiuto, si trasforma allora in una furia violenta e vendicativa, volgendo in modo particolare il suo odio cieco verso quello che ritiene essere il responsabile della sua infelicità: lo scienziato che gli ha dato la vita, e che, malgrado le sue suppliche, ha deciso di lasciarlo un essere unico - e come tale, solo, su questa terra.
E' così, nell'inseguimento tra scienziato e creatura, si dipana via via il filo della storia in un circolo che si chiude - tra epilogo e antefatto - tra i ghiacci perenni del nord.
Una storia che parte dall'asciutto racconto del dottor Frankenstein per poi condurci, attraverso lo struggente racconto della creatura, in un mondo fosco di solitudine e desiderio di essere parte di qualcosa. E che alla fine lascia un leggero alone di malinconia, perchè tutto sommato, ci si rende conto del paradosso di trovarsi così simili a quell'essere informe fatto di brandelli di carne, piuttosto che al suo brillante creatore.

UN ASSAGGIO:

"Dovrei forse io rispettare l'uomo che mi disprezza? Che egli viva con me in termini di mutua bontà, e, in luogo di male, lo colmerò di attenzioni, e piangerò di gratitudine se si degnerà di accettarle. Ma ciò non può essere: i sensi umani sono barriera insormontabile alla nostra convivenza. Ma la mia non sarà l'abietta sottomissione dello schiavo. Mi vendicherò delle offese subite: se non posso ispirare affetto, diffonderò il terrore, e a te soprattutto, mio arcinemico perchè mio creatore, giuro odio inestinguibile. Bada bene: lavorerò alla tua distruzione e cesserò solo quando ti avrò straziato il cuore tanto da farti maledire il giorno in cui sei nato."

ALESSANDRO BARICCO - Omero, Iliade


DOVE: Troia, Asia Minore
QUANDO: più di mille anni prima della nascita di Cristo.


Tra gli scrittori italiani, Alessandro Baricco è uno dei miei preferiti, per lo stile coinvolgente, per l'ambientazione sempre in bilico tra narrativa e favola, per i suoi personaggi che non puoi non amare. Eppure, nel mio piccolo archivio "virtuale" dei libri, voglio partire da questo, dalla sua idea di trasporre in prosa il celebre poema omerico. Un'idea azzardata, forse; non so quale sia stata, all'epoca dell'uscita, la posizione dei critici e degli umanisti di fronte a questa pubblicazione. Quello che è certo è che leggere l'Iliade in versi fa tutto un'altro effetto - d'altronde, che diventerebbero le poesie di Neruda se qualcuno le mettesse in prosa? Degli splendidi aforismi, certamente, privi però dell'atmosfera sensuale del verso originale.
Eppure, questo libro mi è piaciuto, e molto.
Tanto per cominciare, per chi come me è transitato per il Liceo Classico ed ha incontrato il grande Omero in lingua originale ed in pompa magna, non guasta "rinfrescarsi" la memoria con questa versione più fruibile e altrettanto avvincente. Dopotutto, l'Iliade fa parte delle nostre radici, ma mi rendo conto che non tutti, prendendo il coraggio a quattro mani, si avventurerebbero in un poema epico in versi, anche se corredato di note esplicative. Quindi perchè non "ingolosire" tutti coloro che, magari molto profanamente incuriositi dalla rivisitazione holliwoodiana, timidamente si sono affacciati al racconto mitologico della guerra di Troia?

Vi consiglio, se siete in libreria e dubitate sul senso di questa trasposizione, di scorrere il libro fino al capitolo conclusivo (Un'altra bellezza. Postilla sulla guerra), nel quale Baricco, sinteticamente e con avvincente semplicità, ci parla dell'attualità dell'Iliade in tempi come questi - tempi di guerra. Poche pagine che condensano nel loro succo la nostra storia di esseri umani, continuamente in balia del nostro istinto umano all'autodistruzione. Ecco perchè ha un senso, questa follia di racchiudere in un volumetto di poco più di 160 pagine l'immenso poema epico, ecco perchè è giusto che l'Iliade venga riproposta anche a noi uomini del ventunesimo secolo, perchè poco è cambiato, nell'animo degli uomini, dai tempi in cui il sole abbacinante faceva scintillare la terra arsa sotto i calzari dei soldati greci.
Nella sua introduzione, poi, Baricco spiega accuratamente come e perchè è nato questo libro, racconta il suo paziente lavoro di "sartoria letteraria", nel tagliare ed adattare il testo, con la cautela propria di chi maneggia un'opera di tale maestosa antichità. Il fine, quello di ottenere un testo sufficientemente moderno da rendere possibile la lettura dell'intero poema in uno spettacolo teatrale, è poi tutto sommato il fine stesso del poema d'origine: quello di trasmettere, oralmente, la cultura ed i valori di un popolo.


UN ASSAGGIO:
"Se ne stava ormai per uscire di nuovo dalle mura e tornare in battaglia quando Andromaca lo vide e gli andò incontro per fermarlo, e io dietro di lei, con il bambino tra le braccia, piccolo, tenero, l'amato figlio di Ettore, bello come una stella. Ci vide, Ettore. E si fermò. E sorrise. Questo l'ho proprio visto coi miei occhi. Ero lì. Ettore sorrise. E Andromaca gli andò vicino e lo prese per mano. Piangeva e diceva ' Infelice, la tua forza sarà la tua rovina. Non hai pietà di tuo figlio, che è ancora un bambino, e di me, sventurata? Vuoi tornare là fuori, dove gli Achei ti balzeranno addorro, tutti insieme, e ti uccideranno?". Piangeva.

mercoledì 21 luglio 2010

AMY TAN - Il circolo della fortuna e della felicità


DOVE: tra Cina e Stati Uniti
QUANDO: tra gli inizi del '900 e gli anni '70

Il mio primo approccio con Amy Tan è stato piuttosto casuale; qualche anno fa, volendo "rinnovare" il mio inglese un tantino arrugginito, chiesi ad una cara amica - che allora era studentessa di Lingue - di prestarmi qualche libro in lingua originale. E' stato così che mi sono appassionata a The bonesetter daughter (La figlia dell'aggiustaossa), di questa scrittrice americana ma di origini cinesi. Nonostante qualche intoppo con la lingua e la necessità di avere a portata di mano il mio fedele dizionarietto, il libro mi ha talmente incantato che mi ero riproposta di rileggerlo in italiano, ma una volta in libreria mi sono detta: perchè invece non leggere prima qualcos'altro della stessa autrice?
Detto, fatto: sono uscita dal negozio portando con me questo sorprendente pezzetto di Cina...
La storia è piuttosto articolata, ripercorrendo le vite di otto donne - quattro mamme e quattro figlie - tra una Cina rurale e pittoresca e un'America razionale e "moderna". A fungere da spunto, la storia di Jing-Mei, che dopo la morte della mamma Suyuan prende - un po' di malavoglia - il suo posto al tavolo del Mah-jong; da questo episodio si dipana il filo conduttore dell'intero libro, il contrasto tra due generazioni e due culture, le mamme rimaste impigliate nel folklore e nelle superstizioni di una Cina che sta scomparendo e le figlie, combattute tra il folle desiderio di rinnegare le proprie origini e il loro "essere cinesi".
Amy Tan ci porta a spasso in un oriente tanto lontano da tingersi di fiaba, un oriente in cui le quattro coraggiose mamme - e le loro stesse mamme - vivono la loro giovinezza, tra folklore e magia popolare, barcamenandosi come possono tra gli orrori della guerra ed i vincoli spesso incomprensibili dell'onore e del rispetto; e poi via, attraverso l'oceano, fin negli USA scintillanti di vetrate e grigi di cemento, una nuova terra carica di promesse nella quale le quattro donne hanno piano piano messo radici. Salvo poi trovarsi davanti delle figlie quasi estranee, cresciute malgrado tutti i loro sforzi secondo i principi americani ma che, una volta adulte, riscoprono lentamente le loro radici, nella semplicità di piccoli, preziosi gesti, come quello di preparare i piatti della tradizione cinese.
Splendida in questo senso la descrizione della zia An-Mei intenta a preparare i wonton, o il racconto - un intero capitolo - del pranzo a base di granchi per il Capodanno Cinese, che ci porta tra gli odori e i colori del mercato di Chinatown, nella folla chiassosa in cerca della "migliore qualità".
Per questo amo questa scrittrice, per la capacità di evocarti, con pochi tratti, un'intera scena e per la semplicità con cui, da un capitolo all'altro, il suo stile vira bruscamente, passando dal racconto delle figlie a quello delle madri. Alla fine del libro, resta una vaga sensazione di tenerezza per queste quattro donne, trapiantate in un occidente che faticano a comprendere, guardandolo nel contempo mentre, come una marea, cerca di portare via le loro figlie.

UN ASSAGGIO:
"'Questa è la camera degli ospiti', mi ha detto Lena con quel suo fiero piglio americano. Ho sorriso. Ma secondo lo standard cinese la camera degli ospiti è la camera da letto migliore della casa, quella dove dormono lei e suo marito. Io non glielo dico. La sua saggezza è come uno stagno senza fondo. Tu ci getti delle pietre che affondano subito nell'oscurità, e spariscono nel nulla. I suoi occhi che ti guardano non riflettono niente. Io lo penso tra me e me anche se amo mia figlia. Io e lei abbiamo diviso lo stesso corpo. C'è una parte della sua mente che è parte della mia. Ma quando è nata, è schizzata fuori dal mio corpo come un pesce scivoloso, e da allora ha continuato a nuotare lontano da me. Per tutta la vita l'ho guardata come se fossi su un'altra spiaggia. E adesso devo dirle tutto quello che riguarda il mio passato. E' l'unico modo per penetrare nella sua pelle e trascinarla fin dove può essere salvata."

PERCHE' UN BLOG SUI LIBRI?

Vengo da una famiglia in cui la lettura è qualcosa di molto più che un semplice obbligo scolastico. Leggere non mi è mai pesato, anzi, è qualcosa che amo fin da quando, per la prima volta, ho scoperto l'incanto di nascondere parole, emozioni e luoghi in tante piccole letterine, ordinatamente disposte una accanto all'altra secondo rigidi schemi grammaticali; l'idea che si possa condensare un pezzetto di mondo in una frase mi affascinava.
La mia nonna paterna - credo abbia la terza elementare, o giù di lì - da piccola mi raccontava le avventure di Ulisse e la storia travagliata di Renzo e Lucia, che avrei poi, col tempo, imparato a scandagliare e dissezionare al Liceo classico, fino a perderne la visione d'insieme; mi leggeva le poesie di Pascoli e di Leopardi con una tranquillità che non aveva niente a che vedere con l'aura di reverenziale pesantezza che li avvolge nella visione di molti studenti. In poche parole, ho imparato da lei che i libri vanno ascoltati col cuore, che bisogna lasciarsi travolgere e trasportare dalle parole scritte, assaporandole senza paura.
E il mio nonno paterno - quinta elementare, o poco più - ha saputo riassumere tutto ciò in una semplice quanto romantica filosofia di vita, che recita più o meno così: "Quando ho voglia di viaggiare, apro un libro. Scelgo prima il posto in cui voglio andare, prendo il libro giusto e mi ci lascio trasportare, standomene comodamente seduto in poltrona."
Ecco, dunque, cosa significa per me leggere: lasciare che intorno a me tutto svanisca e infilarmi in una sorta di porta segreta che mi conduce là dove ho scelto di farmi condurre, sia esso l'Ottocento Inglese di Jane Austen o il Giappone contemporaneo di Murakami Aruki.
L'intento del blog non è quello di scrivere critiche - non ne avrei certo la competenza; è semplicemente quello di raccontare, in breve, quello che alcuni libri mi hanno trasmesso.

E se qualcuno avrà voglia di condividere con me i suoi commenti, ne sarò ben lieta.