venerdì 27 gennaio 2017

Il SENSO della MEMORIA


 
Ho sempre preferito affrontare in silenzio la Giornata della Memoria. Trovo che il rischio di cadere nella banalità sia elevatissimo, pertanto ho sempre lasciato il mio blog muto, in questa giornata.
Ad eccezione di qualche anno fa, quando scelsi di condividere in tale occasione il brano di un libro delicatissimo (qui recensito) in cui si parla di dolore, di rinascita, di speranza.

Ora, io onestamente non sono una ferratissima in "etichetta blogghesca", e non so se riproporre un brano già condiviso in precedenza possa far accapponare la pelle alle blogger più tradizionaliste.
Ma trovo che siano delle parole talmente azzeccate, talmente intense, talmente intrise di struggente dolore, che io me ne infischio delle consuetudini della blogosfera, e le ripropongo oggi.

Giusto per contestualizzarle, siamo in Ruanda, dopo la fine della guerra, in visita al Memoriale eretto in ricordo del genocidio di Kigali (250 mila vittime, per chi volesse ho inserito il link al sito del Memoriale stesso).
Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, temo. La memoria degli uomini, ahimè, è labile.


.... "Hanno bisogno di vedere i corpi per ricordare?" Domandò Angel "Non se lo ricordano ogni volta che si girano per parlare con i loro cari e scoprono che non ci sono più?"
"Sono sicuro che sia così, signora. Ma i nostri figli che sono troppo giovani per ricordare avranno bisogno di quel posto per non dimenticare, e i figli dei nostri figli che verranno dopo. E molti turisti da altri paesi ci sono già stati per vedere quello che è successo. Molti Wazungu hanno firmato il registro dei visitatori."
<...> "E tu, Binaisa?" Domandò Pius "cosa sei riuscito a scrivere?"
"Non ci crederai, Tungaraza, ma ho scritto solo due parole, le stesse he molti Wazungu avevano già scritto. Mi sento in imbarazzo a dire quali sono."
" 'Mai più'?" suggerì Gasana "Le ho viste scritte più e più volte sul registro"
"E' la stessa cosa che si disse quando vennero chiusi i campi di concentramento in Europa." commentò Angel "Ti ricordi, Pius? 'Mai più' era scritto ovunque in quel museo dove andammo in Germania."
"E se allora quelle parole avessero significato qualcosa, non sarebbero più esistiti posti come quello dove siamo appena stati, oggi, con registri dove la gente può continuare a scrivere 'mai più'" Osservò Pius.
"Hai ragione, Tungaraza, e le parole che ho scritto oggi hanno poco valore, lo stesso che avevano tanti anni fa. Di sicuro in futuro ci saranno altri massacri nel mondo, dopo i quali qualcuno scriverà su un registro 'mai più' - e di nuovo quelle parole non significheranno niente. <...>"


GAILE PARKIN, "Africa Social Club" 

                                                          (immagine presa dal Web)
                                 

mercoledì 18 gennaio 2017

VIRGINIA MACGREGOR - Quello che gli altri non vedono

DOVE: Slipton, UK
QUANDO: oggi

Storiella leggera ed un tantino naive, forse un po' troppo al punto da sfociare direttamente nel mondo fiabesco, lì dove non si vedrebbe nulla di strano nell'amicizia tra un bambino costretto a crescere in fretta sobbarcandosi la cura della bisnonna ed un giovane clochard. Ma tutto sommato, in un'epoca cupa di terrore e diffidenza verso carnagioni dal sapore mediorientale, abbiamo bisogno anche di questo, di una zuccherosa favola per adulti nella quale i buoni e i cattivi hanno confini netti e ben definiti. Che poi, a ben guardare, in questa favoletta per adulti sono proprio gli adulti a far confusione. Come Sandy, giovane estetista di Slipton nonchè madre separata lasciatasi andare allo sconforto per i conti di fine mese che non quadrano ed incapace di prendere in mano le redini della sua vita. O Andy, il suo ex marito, fuggito dal soffocante tran tran e dalle responsabilità quotidiane per trasferirsi all'estero con una giovane e graziosa Amichetta.
Ma per fortuna, a far chiarezza e lucidità in questo mondo di adulti caotici, di padri immaturi e madri depresse, ecco spuntare lui, Milo, nove anni, serio, disciplinato, responsabile, ma soprattutto affetto da un disturbo agli occhi che gli sta - gradualmente- strappando via la vista, restringendo sempre più il suo campo visivo e costringendolo ad osservare il mondo attraverso un piccolo forellino.
Milo, che raccoglie i pezzi della mamma quando crolla, che si prende cura di un maialino domestico, che dopo la scuola amorevolmente accudisce la bisnonna Lou, chiusa nel suo mutismo decennale e bisognosa di attenzioni come una bambina.
Milo è attento, sensibile, sveglio. E quando la mamma, sopraffatta dalle spese, decide di affidare nonna Lou alle asettiche cure della prestigiosa Casa di Cura Nontiscordardimè per disporre di una camera libera da affittare, il ragazzino fiuta subito che qualcosa, lì dentro, non va.
Attraverso il suo forellino, osserva il sorriso di plastica dell'infermiera Thornill, i pavimenti lucidi, le pareti scintillanti; ma soprattutto, osserva nonna Lou e le altre ospiti della casa, sempre intontite, sempre addormentate, come "spente".
Abituato a porre attenzione ad ogni minimo dettaglio, il piccolo Milo avverte subito che qualcosa lì dentro non funziona; ma di nuovo, intorno a sè, non trova che adulti immaturi, ciechi, facilmente ingannati dalle apparenze. Ma lui, armato dello sconfinato amore che nutre per la nonna, e trovando finalmente appoggio nel timido Tripi, profugo siriano divenuto cuoco della Nontiscordardimè, non demorde, e caparbiamente insiste nella sua indagine in cerca della verità.
Una storiella semplice, come ho scritto a tratti fin troppo "ingenua" (non voglio spoilerare troppo, chi dovesse averla letta mi dirà se ha  meno avuto la stessa impressione), ma scorrevole e gradevole anche laddove è un tantino prevedibile.
E uno sguardo dolcemente compassionevole sulla disabilità, sul modo in cui i bambini la vivono, spinti dalla loro innata, straordinaria forza di vivere.

UN ASSAGGIO:

"In Siria, nessuno mette mai gli anziani nelle case di riposo. Vivono con le loro famiglie, si siedono e raccontano storie e mangiano baklava e bevono caffè nero, fortissimo in bicchieri di vetro.
Tripi avrebbe voluto dire alla signora che neanche lui avrebbe  mai mangiato quelle patate, bianche come la sabbia della Siria, e nemmeno il pezzo di manzo filaccioso affogato in quella pozza di sughetto marrone. Avrebbe voluto dirle che un giorno le avrebbe preparato un banchetto come quelli che facevano per i ricconi del Four Seasons di Damasco.
Il terzo giorno di lavoro di Tripi stava volgendo al termine e l'infermiera Thornhill era stata troppo indaffarata per chiedegli di riempire le caselle vuote sul modulo azzurro, il che gli dava un altro po' di tempo per cercarsi una casa.
Mentre attraversava il parco, Tripi si nascose dietro al cespuglio di alloro e aspettò che il guardiano chiudesse i cancelli. Poi stese il sacco a pelo e disse le sue preghiere, in ritardo sul tramonto del sole. Quando inspirava, i polmoni gli facevano male; il freddo gli era già entrato dentro. Di notte, mentre dormiva, sentiva che tra le costole gli si formavano lastre di ghiaccio.
A Damasco poteva accadere che la temperatura scendesse molto al di sotto dei 10 gradi. E quando arrivava il freddo, a volte arrivava anche la neve. In primavera, quando pioveva, cadevano gocce grosse e cristalline che andavano a gonfiare i fiumi e a far girare le ruote di legno e le pale dei mulini, così da far scorrere acqua pulita per tutta Damasco. Qui la pioggia era sottile, sporca e fredda."

giovedì 12 gennaio 2017

BANANA YOSHIMOTO - A proposito di lei

DOVE: Giappone
QUANDO: oggi

Anno iniziato male, malissimo, per me. Otite, placche, punture di antibiotico con annessi e connessi (nausea, capogiri, spossatezza), il tutto con un figlio, due gatti e un cane da accudire.
Tutto sommato, però, la malattia mi ha consentito di riprendere in mano le fila del blog, questa mia povera creatura che ho abbandonato per un paio di mesi, inghiottita dal vortice del lavoro. Dunque, eccomi qui, nella mia piccola oasi di pace, per condividere le mie ultime letture. Cominciando da lei, la mia amatissima Banana Yoshimoto, già recensita in diverse occasioni. Lei è una compagna di viaggio di cui non mi stanco mai. Anche se, lo ammetto, con questo libro ho faticato un po' a ingranare. Di solito divoro in poche ore le sue creazioni, tuffandomi senza esitazione nel suo mondo sempre soffuso di malinconica poesia, riemergendone con un gran senso di calma interiore.
Come mai- mi chiedevo invece, pagina dopo pagina, mentre affrontavo "A proposito di lei" - questa volta Banana non riesce a catturarmi? Come mai tutta questa lentezza, come mai non c'è il tuo inconfondibile "timbro" di sognante poesia?
Ma eccola, l'inconfondibile penna di Banana. Eccola lì, nelle ultime pagine, quando davanti ai miei occhi delinea il colpo di scena finale, e tutto si fa improvvisamente chiaro.
Ho faticato, lo ammetto, ma alla fine non mi ha deluso. Pur non essendo in assoluto la mia opera preferita (continuo ad amare alla follia Moshi Moshi, e Kitchen sopra ogni cosa), anche qui ho ritrovato - per certi versi più che mai - la sua tenera poeticità nell'affrontare il dolore, la sua maliconia sognante, la sua capacità di lasciarti, attraverso una storia drammatica, un germe caldo di pace interiore.
Siamo nella vita di Yumiko, giovane donna proveniente da una ricca famiglia il cui passato è stato però lacerato da un orrendo, terribile delitto compiuto da sua madre. Anzi, più che lacerato, mutilato in piena regola; perchè traumatizzata dall'orrore a cui ha assistito, Yumiko conserva del passato poco più che qualche brandello sopravvissuto alle voraci amnesie di cui soffre, e che pezzo a pezzo glielo hanno divorato. Ad aiutarla a mettere ordine nei suoi ricordi, ecco riapparire da quel passato oscuro suo cugino Shoichi, figlio della gemella di sua madre, col quale un tempo erano legati da una strettissima amicizia; obbedendo all'ultimo desiderio di sua madre morente, il giovane Shoichi si è messo sulle tracce della cugina per tenderle finalmente la mano che a suo tempo non aveva avuto.
Insieme, dolorosamente, i due cominciano a ricostruire - tassello dopo tassello - la storia delle due gemelle; intensamente legate da piccole, entrambe apprendiste streghe così come lo era stata a suo tempo la loro mamma, cresciute poi su binari che hanno finito per divergere, conducendo da un lato la mamma di Yumiko alle seduzioni oscure della magia nera e dall'altro la madre di Shoichi ad impegnare tutte le sue energie per trovare un saldo equilibrio interiore.
Passo dopo passo, accompagnata dal solido Shoichi, la piccola, traballante Yumiko recupera la sua memoria, riacquistando fiducia in sè stessa e guardando finalmente in faccia la realtà delle cose. Dolorosamente, scopre chi erano veramente sua madre e sua zia, ricostruendo con fatica e con sguardo compassionevole il lento declino che le ha divise, conducendo sua madre al folle omicidio che aveva stravolto la vita dell'intera famiglia.

Una storia per molti versi oscura, inquieta, angosciante e dolorosa, ma d'altro canto soffusa di tenue speranza e poetico, velato ottimismo.

Non è un libro che consiglio a chi, per la prima volta, si accosta a lei; nè tantomeno lo consiglierei a chi avesse già letto, per citarne uno, kitchen, ed avesse trovato i suoi ritmi troppo "lenti" e poco occidentali.
Ma sarei curiosa di avere il parere di altri amanti di questa scrittrice. per capire se solo io ho faticato così tanto ad ingranare in questa storia, pur trovandomi a chiudere il libro dopo aver letto l'ultima pagina in preda ad una grande emozione.

UN ASSAGGIO:

"Sul tavolo, l'unico oggetto rimasto era un candelabro. Ricordai che la mamma vi accendeva spesso delle candele. Provai a toccarlo dolcemente. Era il punto che le mani morbide e bianche della mamma toccavano sempre. Mamma, pensai, e improvvisamente provai il desiderio di incontrarla.
Avrei voluto ritrovarla, sentire la sua voce, vederla camminare. Avrei voluto incontrarla. Da quel giorno non l'avevo più vista. Prima che perdesse la ragione, c'era stato un tempo in cui mi abbracciava con dolcezza, e sorrideva guardandomi.
Piangendo mi strinsi forte la mano da sola.
Shoichi mi aveva messo una mano sulla schiena e continuava a darmi dei leggeri colpetti. Come avrebbe fatto una madre. Probabilmente era quello che la zia faceva a lui, pensai. Se le persone possono restituire agli altri solo quello che hanno ricevuto dai propri genitori, allora io? Potevo considerarmi a posto?
Paragonata alla complessità di quello che avevo dentro, quella stanza, che ormai era solo una sala da pranzo in rovina, mi appariva quasi insignificante. Non era che una stanza buia, opprimente, dimenticata da tutto e tutti."