venerdì 25 agosto 2017

PATRICK MC GRATH- Spider


DOVE: Londra, Inghilterra
QUANDO: tra gli anni '30 e la fine degli anni '50

Già anni fa, quando lessi "Grottesco", mi innamorai dello stile di McGrath e della sua capacità di trasmetterti l'inquietudine cupa della mente umana, lasciandoti quasi senza fiato, con una sensazione di claustrofobia e disorientamento, quasi, una volta richiusa l'ultima pagina.
Mi ero ripromessa di leggere altri titoli di questo autore ma poi, per un motivo o per un altro, mi sono sempre ritrovata fra le mani altro; fino a quest'anno, quando finalmente incontro di nuovo la penna affilata di McGrath e la sua capacità spietata di frugare tra le pieghe più oscure dell'anima umana.
Devo ammettere che, ahimè, avendo già visto il film tratto da questo romanzo - un film di David Chroneberg altrettanto cupo ed angosciante - in parte ho perso il gusto del colpo di scena finale; nonostante questo, Spider è riuscito comunque ad attanagliarmi la gola ed opprimermi il petto d'angoscia.
Siamo a Londra, intorno alla fine degli anni '30, in una stradina di un quartiere popolare - casette cadenti con il bagno ricavato all'esterno, piccoli giardini recintati ed un pub in cui riversare, la sera, lo stress di una dura e poco gratificante giornata di lavoro. Dennis Claig, o "Spider", come lo ha soprannominato la mamma, è un ragazzino inquieto, solitario, magro ed allampanato, con pochi amici. Un ragazzino divenuto uomo che cerca, nei meandri della sua memoria disordinata i pezzi di un puzzle complesso, per ricostruire e capire una storia cupa ed angosciosa rimastagli annodata dentro per venti lunghi anni. Da quando, così gli sembra di ricordare, il padre Horace - idraulico severo ed incline all'alcol - ha ucciso la sua amata mamma rimpiazzandola con Hilda, volgare e vistosa ex prostituta, la quale si insinua con prepotenza nella vita di Spider, cercando di prendere il posto della madre defunta ed il controllo sulla vita sua e di suo padre.
Isolato, disperato, aggrappato al ricordo della mamma, Spider cresce soffocato dal dolore e dall'angoscia, divenendo un adulto disturbato attraverso i cui occhi, a distanza di venti anni, ricostruiamo pezzo a pezzo quello che è veramente accaduto.
Perchè le cose, manco a dirlo, sono diverse da quelle che Dennis ricorda. E pagina dopo pagina, appunto dopo appunto, è lui stesso inconsapevolmente a fare luce su quanto accaduto.
Soffocante, allucinato, paranoico. Un romanzo che oscilla continuamente tra l'incubo e la realtà, sullo sfondo della periferia di Londra, con le strade lucide di pioggia, i piccoli pub affollati, le casupole popolari, gli enormi gasometri che svettano al di là del canale, sulle cui rive lo Spider giovane e quello adulto si siedono in cerca di chiarezza, contemplando l'acqua melmosa.
Lontanissimo dalla Londra luminosa, dal Big Ben, dagli autobus rossi a due piani e i grossi taxi cab neri e lucenti che scivolano sotto il traffico, qui è cresciuto Dennis; in una periferia fangosa, con piccoli orti urbani nei quali gli operai sfiancati da una settimana di lavoro cercano di recuperare il fiato distendendo i nervi, una periferia di vicoli solitari e silenziosi, di lampioni che lanciano una stanca luce giallognola nella nebbia, di donne pazienti che attendono sedute in cucina i passi stanchi dei mariti di rientro dal pub, annebbiati dall'alcol e schiantati dalla vita.
E mentre lui, lentamente, srotola davanti a noi vividi frammenti della sua vita di bambino, in un continuo oscillare di passato e presente, flashback e realtà, scendiamo fino nei meandri più oscuri della mente umana, lì dove si annidano i traumi, i ricordi sgradevoli che non possiamo e non vogliamo che risalgano in superficie.
Fino a che, come le onde del mare, la memoria di Dennis non vomita frammenti inquieti di passato, ad uno ad uno. Lasciandoti, infine, senza fiato.

UN ASSAGGIO:

"Ma almeno non sono lontano dal canale. Ho trovato una panchina vicino all'acqua, in un punto riparato che posso definire 'personale', dove mi piace passare il pomeriggio senza che nessuno mi disturbi. Da questa panchina, ho una chiara visuale dei gasometri, e la vista mi ricorda sempre mio padre: non so perchè, forse per il fatto che era un idraulico e una figura familiare in questo quartiere quando pedalava sulla bicicletta con la borsa di stoffa degli attrezzi buttata su una spalla come una faretra piena di frecce. Le strade erano strette a quel tempo, fiancheggiate da scure, squallide catapecchie accostate l'una all'altra, con dietro dei cortiletti minuscoli- tubazioni esterne e fili per stendere tesi fra muro e  muro, e i cortili davano su vicoli in cui magri gatti randagi rovistavano nei bidoni della spazzatura. Londra sembra così grande e vuota, adesso, e questa è un'altra cosa che trovo strana: mi aspettavo il contrario, perchè le scene della propria infanzia tendono ad apparire enormi e immense nella memoria, come sono state vissute a quel tempo."


domenica 20 agosto 2017

ORHAN PAMUK - La stranezza che ho nella testa

DOVE: Istanbul, Turchia
QUANDO: tra la fine degli anni 50 e gli anni duemila

Un viaggio impagabile, suggestivo, unico, quello che offre Orhan Pamuk (tra l'altro, premio nobel 2006 per la letteratura) in poco meno di seicento pagine scorrevoli e fluenti: quello attraverso la Istanbul dell'ultimo secolo, a partire dagli anni '50 fin quasi ai nostri giorni, anni di profondo fermento politico e sociale durante i quali la città si trasforma e ribolle sotto la spinta dei suoi abitanti, fino a diventare la metropoli a cavallo tra oriente ed occidente che conosciamo oggi.
E tutto questo, noi lo viviamo sulla pelle di uno dei suoi cittadini più umili, Mevlut, trasferitosi da ragazzo in città assieme al padre, venditore di yogurt e boza, in cerca di fortuna e rimasto impigliato in una vita modesta un po' per un suo testardo, nostalgico attaccamento alle tradizioni, un po' per la sua indole pacata, accomodante, poco ambiziosa.
E mentre suo zio e i suoi cugini, anch'essi venuti ad Istanbul in cerca di ricchezza, riescono tutto sommato, anno dopo anno, ad ampliare la loro baracca, i loro guadagni, la loro famiglia, il romantico Mevlut rifiuta di abbandonare il suo mestiere e continua per la sua strada - letteralmente.
Perchè, anno dopo anno, lui continua a percorrere le vie cittadine con il pesante giogo appoggiato sulle spalle, richiamando col suo grido "bozaaaa" i clienti. Che però, anno dopo anno, man mano che il progresso porta ad Istanbul i frigoriferi e lo yogurt e la boza di produzione industriale, diminuiscono fino a ridursi a sporadici nostalgici perlopiù ubriachi che, di tanto in tanto, spinti dalla curiosità, vengono attratti dal piccolo, anacronistico ambulante.
Intorno a lui la città muta e si trasforma velocemente, i locali aprono e chiudono, le leggi cambiano, lui ed i suoi amici d'infanzia crescono; ma Mevlut, silenzioso, testardamente fedele a sè stesso, incurante degli scontri politici, delle lotte interne alla città, dei cambiamenti internazionali, continua a percorrere ogni sera le strade che conosce a menadito, lanciando il suo richiamo d'altri tempi.
Perchè lui, Mevlut, è un ragazzo - e poi, negli anni, un uomo - semplice, d'altri tempi, felice con poco.
Pienamente soddisfatto, e questo la dice lunga sul suo carattere, del matrimonio con Rayiha, rapita con la complicità di suo cugino Suleyman. Peccato che, si accorge Mevlut quando ormai è troppo tardi,  la ragazza rapita non era quella di cui, tre anni prima, si era innamorato incrociando per caso il suo sguardo ad un matrimonio, ma la sorella maggiore di quest'ultima. Una terribile confusione, uno scambio di nomi, un fraintendimento con il solerte cugino; insomma Mevlut rapisce e sposa la ragazza sbagliata. Eppure, dicevamo, è pienamente soddisfatto del matrimonio con Rayiha, della loro vita coniugale, delle loro splendide figlie.
Mevlut è così: romantico, semplice, poco ambizioso. Uno così , verrebbe da pensare, una metropoli in fermento come Istanbul lo tritura, lo mastica sputandone via solo le ossa; e invece no, Mevlut resiste, insiste, vive la sua vita semplice osservando con occhi ingenui e puri i cambiamenti che avvengono attorno a lui.
Una storia semplice, raccontata a più voci - perchè non è solo Mevlut a parlare, ma i diversi personaggi, ciascuno per propria bocca, hanno tutti voce in capitolo - intrisa di una sottile e polverosa malinconia. Una storia piena di profumi e suoni di un tempo lontano, di un mondo esotico che vediamo sotto ai nostri occhi diventarlo sempre meno, sempre più contaminato da un Occidente che sembra , sguaiato e prepotente non lasciare scampo alle delicate tradizioni di un tempo ed alle silenziose notti d'oriente rotte solo dalla voce del bozaci.
Tante voci, tanta umanità, che finiscono per costringerti ad affezionarti alla vecchia Istanbul ed a provare anche tu, lettore, in fondo al cuore un moto di malinconia quando inesorabilmente i paesaggi familiari mutano sotto la spinta prepotente del progresso. Ed a renderti conto che, qui come in Turchia, tra gli anni 60 ed oggi il progresso ci ha dato tanto, chiedendoci forse in cambio di pagare un prezzo altissimo: la perdita del candore, dell'innocenza, del gusto genuino per le cose semplici. In una parola, di tutto ciò che incarna la piccola anima di carta di Mevlut.

PS: per chi, come me, ignorando cosa sia la boza, volesse conoscere meglio questa bevanda, rimando a questo link.

UN ASSAGGIO:

"Nel punto più alto di Kultepe, dove andavano Mevlut e suo padre, c'erano i resti dell'inceneritore dei rifiuti, e le ceneri che davano il nome a quel posto. Da lì si vedevano le altre colline, che si stavano riempiendo velocemente di baracche (Duttepe, Kustepe, Esentepe, Gultepe, Harmantepe, Seyrantepe, Oktepe ecc.), il cimitero più grande della città (Zincirlikuyu), parecchie aziende grandi e piccole, autorimesse, officine, depositi, fabbriche di medicinali e lampadine e, in lontananza, l'ombra spettrale della città, con i suoi alti edifici e minareti. La città stessa e i quartieri dove con suo padr vendeva yogurt al mattino e boza la sera, e dove andava a scuola, erano come tante chiazze misteriose.
Ancora più lontano c'erano le colline azzurre della parte asiatica della città. Il Bosforo era fra queste colline, e purtroppo non era visibile. Eppure ogni volta che Mevlut saliva in cima, sin dal suo arrivo in città, per un istante credeva di intravedere il mare fra quelle montagne azzurre. Sulle colline che scendevano verso il mare c'erano enormi tralicci, conduttori di una delle principali linee che portavano l'elettricità a Istanbul. A contatto con i cavi, il vento produceva suoni bizzarri, e nei giorni in cui c'era umidità i fili emettevano uno strano ronzio. "

lunedì 7 agosto 2017

MURAKAMI HARUKI - L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

DOVE: Giappone, tra Nagoya e Tokio
QUANDO: tra gli anni '90 e gli anni 2000

Tra la fredda, caotica, disumana Tokio ed il piccolo calore e la semplicità provinciale di Nagoya si srotola la vita di Tazaki Tsukuru, ingegnere progettista di stazioni, "incolore" per sua stessa ammissione, insicuro, solitario, piattamente insoddisfatto. Un lavoro che corrisponde a quanto aveva sempre sognato, una casa di proprietà, una relazione tutto sommato stabile con una ragazza brillante e piena di fascino. Eppure lui, Tazaki, conduce la sua vita in un asettico torpore, incapace di entusiasmarsi, affezionarsi, emozionarsi. Un tempo, ricorda, la sua vita era diversa. A Nagoya, in provincia, al sicuro in un compatto gruppo di amici ( oltre a lui, altri due ragazzi e due ragazze), Tazaki era felice, pieno di impegni, fiducioso verso il futuro; ma ahimè l'adolescenza, rosea o cupa che sia, ad un certo punto termina e la vita, si sa, costringe a fare delle scelte. E mentre i suoi quattro amici storici scelgono di restare in provincia, lui si trasferisce a Tokio per studiare, inseguendo il sogno d'infanzia di realizzare stazioni ferroviarie; ma nemmeno questo sembra scalfire la solidità della loro amicizia ed i cinque ogni anno all'inizio dell'estate, quando anche Tazaki rientra a casa dei genitori per le vacanze, si ritrovano come se non si fossero lasciati mai, condividendo emozioni, speranze, paure.
Finchè di punto in bianco, durante l'estate del secondo anno di università, tutto cambia; rientrato come ogni anno a Nagoya Tazaki non trova i suoi amici ad attenderlo, ma quattro porte sbarrate. Senza una spiegazione, nessuno dei quattro ha più alcuna voglia di vederlo nè sentirlo, anzi, lo sollecitano a non farsi più sentire, uscendo dalle loro vite. Senza un motivo apparente, Tazaki si ritrova solo, in preda a mille domande. Perchè? Cosa aveva fatto? In che modo poteva aver ferito i suoi amici senza accorgersene? Per sei mesi, il giovane Tazaki sprofonda in una crisi nera, durante la quale vive apaticamente sperando soltanto di morire; infine riemerge dall'abisso in cui era sprofondato anche grazie ad una nuova amicizia, rimanendo però in qualche modo segnato. Il nuovo Tazaki è in un certo senso apatico, privo di entusiasmo, pessimista, rassegnato. Quel dolore sordo continua a logorarlo profondamente, per quanto lui tenti di ignorarlo. Solitario al limite della misantropia, Tazaki torna sempre meno al paese natale, trovando nella caotica e distaccata città di Tokio un ambiente più idoneo al suo desiderio di solitudine.
Accantonate l'adolescenza e la giovinezza, l'incolore Tsukuru è diventato un uomo solitario e disilluso.
Ed è soltanto per l'insistenza di Sara, l'unica in qualche modo a riuscire a fare breccia nella sua corazza, che Tazaki si deciderà infine a riprendere in mano le redini della sua vita, scavando finalmente alle radici del suo malessere e decidendo di affrontare uno ad uno gli altri quattro, ed a fare luce là dove per anni hanno regnato le tenebre.
Una storia delicata sul dolore della  crescita, sulle lacerazioni che restano dentro e continuano a far mare a distanza di anni, sul coraggio di affrontare i propri mostri, guardando in faccia noi stessi. Sul coraggio di chi, toccato il fondo, si dà una bella spinta e comincia a risalire.
Sulla necessità di aprire gli occhi, anche quando tenerli chiusi sembrerebbe la scelta migliore.
Diventare adulti, tutto sommato, non è che questo: affrontare ciò che ci ha ferito, impedendo che accada di nuovo. Accettare i cambiamenti, nel bene e nel male. Incassare i colpi.
Un romanzo che per certi versi di discosta un po' dal Murakami più tradizionale; pur aleggiando sempre un certo velo di sovrannaturalità, qui tutto è molto concreto, reale, come reali sono ahimè le ferite che ci vengono inferte dagli altri esseri umani, nella vita di tutti i giorni.
Tanta riflessione, tanta instrospezione. Tanta crescita spirituale. Tanta vicinanza con episodi della mia vita, quei piccoli "traumi"adolescenziali che non riusciamo a metabolizzare perchè dai 18 anni in poi è come rotolare giù da un piano inclinato, e come niente riapri gli occhi e di anni ne hai 38, combatti con le zampe di gallina ed i capelli bianchi. ^_^
Un libro consigliato anche a chi trova "ostico" il Murakami troppo onirico.


UN ASSAGGIO:

"Dal suo ritorno a Tokio, per sei mesi Tsukuru visse sulla soglia della morte. Si era organizzato un piccolo spazio sul bordo di una buia voragine senza fondo, e lì conduceva la sua solitaria esistenza. Un posto pericolosissimo: sarebbe bastato che dormendo cambiasse posizione per rotolare giù, nel nulla. Ma era un rischio che a lui non faceva paura. Cadere sarebbe stato tanto più semplice!
Attorno a sè vedeva solo una landa deserta cosparsa di rocce. Non una goccia d'acqua, non un filo d'erba. Non un colore, non un raggio di luce. Non c'era il sole, lì, nè la luna, nè le stelle, nè nord, nè sud. Una penombra dalla natura sconosciuta si alternava periodicamente ad un'oscurità sconfinata. Era l'estrema frontiera che un essere dotato di coscienza poteva percorrere. Al tempo spesso, però, era un luogo ricco di nutrimento. Durante la penombra, degli uccelli con il becco affilato venivano a scavare nella sua carne, ma quando le tenebre calavano sulla terra e gli uccelli se ne andavano, qualcos'altro colmava in silenzio il vuoto che si era aperto nel suo corpo."